SIGNIFICATO DI UN DISTINTIVO
Notiziario Forestale e Montano n. 128 anno 1965
Per una recente iniziativa sei foglie di quercia, cesellate in oro compatto e forbito su campo opaco, contraddistinguono in maniera evidente, inequivocabile, in un unico distintivo i forestali d’Europa.
Mai, forse, il valore di un simbolo è stato più profondamente atto ad esprimere una sincera unità di intenti e di vedute.
Ogni discordanza di idee, possibile in campo filosofico e politico, resta, infatti, superata, quando ci si attenga al campo strettamente scientifico e naturalistico.
Ogni contrasto ideologico si appiana, anzi si supera di un balzo, quando si assurge al piano superiore della scienza che oggi, si propone, quale fine precipuo e nobilissimo, la conservazione della natura.
Ove coesistano terra ed acqua, gli elementi più semplici e complicati (abbiano essi per sfondo il paesaggio di betulle e di abeti. di faggi, di pini, o di quercie, si spazino dalle brume nordiche agli splendidi tramonti di Istambul) svolgono la loro opera sparute pattuglie ed esponenti di una specializzazione di pochi ma appunto per questo più ragguardevoli individui, che costituiscono l’esigua schiera dei forestali.
Un solo amore, un identico sentimento li accomuna, un unico intento: la conservazione del patrimonio boschivo e, quindi, della natura.
Nel secolo scorso, come riferisce Aldo Pavari(1) il tedesco Ebermayer fu il precursore degli studi forestali tendenti alla osservazione del clima, delle acque, della foresta.
L’esempio di Ebermayer, seguito da quasi tutte le nazioni dell’Europa centrale ed occidentale, si estese in Russia, valicò gli oceani, raggiunse l’America, il Giappone, l’India e l’Africa.
Alcune specie arboree particolari e peculiari furono oggetto di osservazione e ricerche: in Europa la picea, lì pino silvestre, il faggio, 11 lance, l’abete bianco e la quercia, nelle montagne rocciose del Colorado la pseudotsuga taxifolia e il pinus aristata, nell’Arizona e nel Nuovo Messico fu attore il pinus ponderosa, nella stazione sperimentale di Neguro (Tokio) la Criptomeria Japonica, la chamaecjparis obtusa, 11 pino densiflora per quanto riguarda l’Africa la Scaètta pubblica i primi dati circa l’influenza delle foreste tropicali.
Le ristrette barriere delle concezioni forestali ottocentesche, retaggio del Medio Evo empirico, lasciano gradatamente il posto alla scienza e coscienza naturalistica.
Nell’agosto del 1937 in Ungheria, in un apposito convegno, il nostro maestro, Aldo Pavari, rese noti i primi risultati delle esperienze italiane circa l’influenza dei boschi mediterranei sul clima.
Al suddetto convegno ne successero altri tre a carattere internazionale; il quarto si svolse nel 1954 a Dehra Dun (India); erano presenti 56 nazioni con 424 delegati e le organizzazioni forestali della FAO, IUFRO e UNESCO.
Da allora tali incontri sono divenuti sempre più frequenti e fecondi. Si accorciano le distanze anche per le piante: il genere pinus, fagus, abies ecc., si ritrova anche se disforme nelle diverse specie a seconda dell’habitat, con la stessa puntualità degli uomini forti di una esperienza pedologica ed ecologica.
Quali sono stati gli argomenti trattati in questi convegni a così alto livello?
Lo apprendiamo dalle cronache, ma interpretandoli nel giusto valore attraverso una indiretta partecipazione.
Certamente si sarà parlato del corso d’acqua, torrentizio o meno, che passa come l’uomo e le piante, attraverso le fasi successive della giovinezza, della maturità, della vecchiaia.
Non si sarà trascurata l’evoluzione dei versanti e degli alvei dei torrenti di tutte le latitudini, dalle regioni temperate alle tropicali. Ogni intervento, tuttavia, sarà divenuto univoco allorchè si sarà chiamata in causa l’azione dell’uomo quale elemento primo e responsabile di qualsiasi modificazione della natura, dal clima alla morfologia e topografia della terra, dal regime delle acque al manto vegetale, dalla flora alla fauna.
Sarà agevole supporre che le argomentazioni avranno avuto l’epilogo di cui ci parla Joanes Bruhnes(2) in un’opera fondamentale, ove l’azione antropica è considerata del tutto negativa ed ascritta e classificata tra i fatti ad <<economia distruttiva>> e che essenzialmente sono <<il disboscamento, la caccia, la pesca, le cave e le miniere>>.
I congressisti avranno fatta propria l’espressione del Biasutti(3) «gli aspetti umani del paesaggio debbono essere di continuo difesi contro l’opera di cancellazione e demolizione spietata dei fenomeni naturali “.
Argomento di primo piano sarà stata l’influenza dell’ambiente naturale sull’uomo abitatore delle diverse regioni.
I delegati mediterranei avranno dato l’allarme sulle stolte denudazioni effettuate in periodi storici, in questo bacino, col disboscamento inconsulto e si saranno associati alla preoccupazione di Teofrasto e Platone sulla <<terra fertile che muore>> e che attraverso i corsi d’acqua si disperde per sempre, impugnando le piattaforme marine.
Sarà stato notato dagli esperti riuniti in convegno che nelle regioni silvane tropicali l’agricoltura ivi praticata con mezzi primitivi, non consuma eccessivamente il bosco che, anzi, tende sempre più a ricostituirsi naturalmente, mentre nelle regioni silvane fredde (le cosiddette zone della civiltà della renna) l’uomo tende ad invadere le foreste boreali di conifere. Malgrado siamo agli estremi limiti vegetativi, un processo di lenta, graduale educazione dell’uomo ha portato la saggia e misuratissima utilizzazione della foresta, senza compromettere o intaccare la sua consistenza.
I congressisti provenienti dalle cosiddette zone del <<nomadismo>>, ove l’azione dell’uomo, unita a quella del bestiame brado e vagante, ha determinato, col disboscamento inconsulto, la pressocchè totale scomparsa della foresta, avranno ricordato l’aridità tragica che la solitudine dello Scortecci(4) sintetizza mirabilmente nella parola « Durka» (boscaglia), parola che non sembra coniata dall’uomo, ma espressione della forza furiosa e scatenata del sibilo del vento vorticoso e furibondo frammisto alla sabbia, che schianta e ghermisce la sparuta ed incartapecorita ramaglia xerofila.
Chi avrà trattato delle regioni forestali tropicali (boscaglie e savane) avrà certamente ricordato i bagliori degli immani incendi capaci di determinare una notevole alterazione alla copertura vegetale, mentre nelle piaghe delle selve pluviali e delle foreste decidue la distruzione è stata pressocchè ultimata (India e Cina) e l’erosione, spinta al parossismo, ha portato quella fame che potrebbe esser catastrofica per i futuri destini dell’umanità.
Saranno state rammentate le foreste delle regioni temperate extra europee (Missìssipì) ove l’azione di rapina ai danni della foresta, ha esaltato in maniera «grandiosa ed allarmante» l’erosione.
Ricordato in fugace sintesi questa non certo profonda cavalcata attraverso tundre, savane, steppe, foreste del monte e del piano, non è azzardato supporre che qualche delegato abbia accennato anche ad una «insolita zona climatica» tipica del duemila, la cosiddetta «zona industriale», in termini di geografia antropica bene individuata e descritta. Essa, senz’acqua e senza terra, è la più deleteria per le foreste e per le piante in genere e quindi per gli scambi vitali. Ove vi è fitto insediamento umano, la vegetazione scompare fatalmente, subentra il paesaggio più squallido ed opprimente, gli scambi gassosi e biologici tra piante ed animali, fra suolo e soprassuolo, tra atmosfera e terra, vengono profondamente alterati: una novella forma di schiavismo subdolo ed antibiologico si profila tragica. Silenziosi, ma ammonitrici si levano la voce e gli scritti ancora poco numerosi, di illustri studiosi a mettere in guardia l’umanità contro il tecnicismo esasperato ed irrazionale che « caparbiamente come dice il Pavan(5) sta allontanando l’umanità sempre più dai valori autentici della natura, come quel pasticciere che con prodotti artificiali cobra le creme dolciarie, dimenticando il tuorlo dell’uovo.
Quale sarà il domani dell’uomo, illuso dominatore di regioni erose, spolpate, squamate, squartate ed impoverite da aria ed acque inquinate, non più adatte alla vita?
Questi sicuramente sono gli argomenti che più spesso dovremmo e vorremmo sentirci ripetere non solo nei nostri convegni ma anche in altri.., a diverso indirizzo.
Ci piace (e ci dispiace) sentire dai nostri emigranti che tornano dalla Germania, dalla Svizzera, dall’Olanda o dal Belgio, che in quei paesi hanno visto convivere, in lieta comprensione, uomini ed uccelli, tutti quegli uccelli che in Italia finiscono in padella, mentre lì nessuno lì tocca, nessuno li disturba, sì che dell’uomo essi non hanno timore alcuno.
Il mondo agricolo sa meglio proteggere il proprio ambiente: le piante coltivate risultano già da millenni assoggettate all’uomo che le ha sapute difendere per i propri bisogni in tutti i tempi ed in tutti i luoghi. Al contrario le piante forestali, cioè selvatiche, seguono il destino dell’uomo, con l’uomo hanno intima comunione, in una silenziosa ed armoniosa trama vitale, che, se turbata, determina, con l’andare del tempo, paurose disastrose conseguenze.
Questi, in sostanza, i problemi che assillano il mondo e che richiamano univocamente l’attenzione sulla necessità della conservazione del suolo e delle acque, per non compromettere la struttura biologica delle foreste.
Nuove visioni, nuovi ideali, accorati appelli, nuove esigenze ed orientamenti sollecitano l’uomo del duemila. Gli studi, nell’epoca delle nuove tecniche e dei moderni ritrovati, nell’era dell’atomo, spaziano in nuovi e più vasti orizzonti. E’ solo ad uomini dalla cultura specializzata che possono essere affidati compiti così alti in un’èra in cui la protezione arborea è divenuta di scottante attualità.
L’uomo moderno reclama ora dall’attività forestale altri compiti di primissimo piano, un tempo assopiti e negletti.
Come la correzione degli alvei, il rimboschimento, i piani di assestamento, il vincolo ecc., si esigono ora acque limpide, igieniche, più a portata di mano e più abbondanti, sorgenti che non si disperdano o si esauriscano lentamente e che «solo» la copertura arborea può assicurare e conservare.
Si reclamano: aria più salubre, minor uso di cemento, più diffusa coscienza di una più efficace ed efficiente coltre arborea, meno veleni ed inquinamenti nell’atmosfera, nel soprassuolo, nel suolo, maggior contenuto umano negli studi d’avanguardia.
Bisogna «umanizzare» l’atomo, gli studi fisici e biologici, difendere quel mondo che «vive» negletto ed appartato, piccolo nella sua grandiosità, antitetico a quello «morto» inorganico, avivente.
E nella possibile ed auspicata sostituzione dell’uomo «antropocentrico», oggi prevalente, che matura la realtà nel suo insieme, ben vengano gli eserciti marcianti e solidali, della formica rufa col loro nobile destino; ben vengano i nidi artificiali per la protezione del picchio rosso e nero, della cinciarella, del regolo e dello scricchiolo, del cudibondolo, del lui, del pettirosso, del pendolino; ben venga la legge protettiva della stella alpina e della peonia, degli anemoni e delle genziane, dei mughetti e delle primule.
Il mondo moderno, che si evolve di pari passo al pensiero umano, vuole l’incontro con altri esseri viventi, vuoi proporre il rinnovamento delle dottrine e delle tecniche che dovranno modificare sostanzialmente ogni aspetto della nostra esistenza.
La impellente necessità della protezione dell’ambiente, della difesa dell’equilibrio biologico, anche in Europa, come in tutti i continenti, è ormai un fatto di esigenza universale e quindi opera altamente meritoria.
L’alambicco non può sostituire la cellula!
Ciò non vuoi dire che lo sviluppo industriale debba essere mortificato o contenuto, ma deve essere sostenuto ed accompagnato dall’accorta vigilanza di organismi tecnici in grado di emanare tempestivamente quelle norme protettive atte a difendere e favorire la conservazione dell’equilibrio biologico, in quanto non basta «riparare i danni causati», dice il Pavan, il quale consiglia <<l’istituzione di zone di assoluto rispetto della natura>> nelle quali si possano salvare dalla totale scomparsa, interessanti specie animali e vegetali in via di estinzione, creando casi dl permanenza e di rifugio di fronte all’incalzante alterazione della natura conseguente all’attività umana, che rende sempre più difficile e precario lo sviluppo della vita allo stato naturale e delle associazioni vegetali in equilibrio con la natura che le ospita.
E poichè (Pavan): <<E’ necessario non solo proteggere organismo o manifestazioni naturali particolari, ma anche conservare gli ambienti nei quali trovano la loro giustificazione e le condizioni necessarie per sussistere ed evolversi», i forestali dell’Europa tutta trovano Il punto d’incontro per accomunarsi, associare la loro opera e procedere, in vie parallele, sulla scia di quanto già la natura seppe operare.
Diverse forme viventi saranno conservate mercè l’opera assidua, appassionata animata dal medesimo amore dei forestali europei. Unica sarà l’aspirazione, il movente, il fine: la conservazione della natura.
Non possono mancare ottimi risultati perchè su base comune è sempre possibile intendersi ed operare proficuamente.
E che una base comune i forestali l’abbiano è superfluo sottolineare. Possiamo dunque parlare di una specifica preparazione in campo europeo, al di sopra di ogni nazionalità e nazionalismo, il campo della tecnica e della cultura ad alto livello si unificano.
Non meraviglia, quindi, che i tecnici in argomento, cioè i dottori in scienze forestali d’Europa, abbiano gradito di rivedersi accomunati in un’associazione (che chiamerei piuttosto un organismo) legati da identità di vedute e di intenti.
Ancor di più si resta piacevolmente sorpresi nel constatare come tali problemi non siano estranei anche agli strati meno colti e meno preparati; l’attenzione anche dei meno provveduti è richiamata da opportune iniziative degli organi competenti, dirette a divulgare concetti prima circoscritti ai soli iniziati.
Recentemente, con un illuminato provvedimento, la Direzione Generale delle Foreste ha fatto pervenire anche agli organi periferici, come i più lontani comandi di stazione forestali, con intento divulgativo, preziosi opuscoli come <<Protezione e conservazione della natura ed equilibri biologici>> di M. Pavan, pèrmettendo alle menti di semplici, ma scrupolosi esecutori di ordini, di spaziare in più vasti orizzonti, all’uniscono con i colleghi di tutta Europa.
Si sarà dato, così, un efficace contributo alla formazione di una coscienza naturalistica che, per quanto innanzi abbiamo detto, va oltre i confini nazionali, poichè insegna ad operare nell’interesse generale, in considerazione che <<la distruzione della natura e delle sue risorse è un delitto che l’umanità paga e pagherà assai caro>> (Pavan).
Il lavoro a cui i forestali sono chiamati sarà arduo, fors’anche incompreso dai più, minato dall’egoismo e dall’interesse di parte. Tuttavia le sei foglioline di quercia dell’aureo distintivo potranno esser valide, al momento di ritrovarsi ed unirsi ovunque con l’internazionalissima stretta di mano, a fraternizzare all’insegna dello stesso credo e della comune passione.
Raffaele CONGEDO
(1) A. PAVARI – Riv. “L’Alpe” (febbraio-marzo 1937) n. 2-3, pag. 42.
(2) J. BRUNHES – “La Geografia umana” – pag. 546.
(3) R. BIASUTTI – “Il paesaggio terrestre” – Torino, 1962, - pag. 237.
(4) G. SCORTECCI – “Durka” – Milano, 1962.
(5) M. PAVAN – “Protezione e conservazione della natura ed equilibri biologici” – (Collana Verde) – Ministero Agricoltura e foreste – Roma, 1964.
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