Se l’indole sua avventurosa favoreggiata dalla qualità degli studi lo sollecitava a ricercare il piacere della gloria, tuttavia intimamente accarezzò il proposito di abbandonarsi al vivere duro, solitario. Stati d’animo del genere, rivelatori di crisi psichica virtuale, se perturbati da eventi eccezionali o drammatici talvolta si trasfigurano nella religiosità mistica a sfondo ascetico. Ma la sorte risparmiò al Poeta lo scontro con avvenimenti tali da fargli mutare una regola di vita esteriormente armonizzata con l’ambiente fastoso delle Corti che frequentava.
Visitò numerose contrade d’Europa, sottraendosi alle abitudini sonnacchiose di certe corti principesche,m quasi che al mutar d’ambiente gli si placasse la sospirosa inquietudine. All’affievolirsi dell’interesse per la cosa nuova subentrava freddo il tedio. In questo stato di irrequietezza, in Avignone, il 24 Aprile 1336 decise di toccare la cima del Mont Ventoux (metri 1912 sul mare, circa 25 miglia dalla città in linea d’aria) situato tra Rodano e Durenza. La impresa, naturalmente sconsigliata dai benpensanti, esigeva intrepidezza non comune, paragonabile forse soltanto a quella che nel 1786 sostenne l’alpigiano Balmat, il primo a raggiungere la vetta del monte Bianco.
Compagno di fatica gli fu il fratello minore. In una sua Epistola il Poeta racconta di un vecchio pastore che all’inizio della salita cercò distoglierlo dal tentativo col risultato di rinforzargli la brama di avventura, ciò che dopotutto orgoglio esigeva. Si fosse trattato soltanto di ronchi e di spini! Se la esortazione della saggezza ci fu veramente o che piuttosto si tratti di artificio letterario, mai sarà dato conoscere. Prosegue narrando la gravezza della fatica imposta dal terreno scosceso privo di piste. Ma gli stati d’animo depressivi in concomitanza a soste riposanti nella tentazione allettante di tornare sui propri passi, altenati a repentini entusiasmi con arrampicate a cuore in gola, parallelamente il confronto della vita gioconda con virili atteggiamenti di lotta e di asprezza, come egli lascia intendere, colorano la narrazione di una intenzione moralistica senza tuttavia sconfinare nella pedanteria. Sovente tace in lui il sentimento della natura non potendo sottrarsi all’influenza dello spirito mistico dell’epoca.
Comunque, sembrando somma irriverenza scandagliare le profondità spirituali del Poeta, conviene passare oltre, per cogliere il momento in cui sulla cima alfin raggiunta i primi alpinisti del medio evo si riposarono allo spirare leggero dell’aere nella vastità dello spettacolo dispiegato al loro sguardo.
La attrazione dell’infinito davanti al panorama on comune, ecco il sentimento dominante rivelato dal Poeta nella sua epistola. Ed egli (a 32 anni) chiede a quell’Infinito Ineffabile due lustri di vita, due lustri soltanto onde conquistare la vittoria sulla carne, ripudiando il resto della vita “che dilegua nella vecchiezza” (in realtà gli furono concessi non due bensì otto lustri ed ei non se ne rammaricò)
Dedito alla introspezione anche in cima al Monte Ventoso, il Poeta poco concesse alle descrizioni naturali, alle percezioni sensorie: infatti neppure quando il “sole declinava e l’ombra cresceva” proruppe in descrizioni realistiche.
Nel pensiero della discesa non agevole destatosi come da un sogno, solamente allora mostrò di interessarsi alla ricognizione dei luoghi dei fiumi dei monti a lui noti, chiamandoli per nome, come l’epistola accenna.
Ognuno soppesi come crede le difficoltà incontrate dagli eccezionali scalatori durante la discesa notturna probabilmente rischiarata dal plenilunio; ma il Poeta, buon conoscitore dei pericoli della montagna, ricercava le emozioni derivanti dal misurarsi con le difficoltà. In età più matura si cimentò con altre ascensioni e basta ricordare la salita del Monginevro.
A proposito dei meriti sportivi del Poeta, Giosuè Carducci dice: “…quell’alpinista del secolo XIV de’ migliori geografi del suo tempo, può credersi delineasse la prima carta del Paese. Nella conformazione della Penisola egli vide lo stivale, quasi che l’Italia fosse destinata a calcare il mondo”.
Se alla figurazione dello stivale si associa l’idea del calcare il mondo con tutto quando di… pedestre c’è dentro, sarebbe irriverente affibbiare al Poeta maggiore la paternità della figura retorica piuttosto spietata ma il riconoscerlo anche geografo amico della montagna ci rende sentimentalmente più vicina la Personalità insigne, quella dell’Autore del Canzoniere, padre del Rinascimento, fondatore di una nuova comunità culturale nel mondo storico occidentale, cinque secoli or sono.
Leonardo Vignoli
Vale la pena di vederlo più da vicino questo «grande della storia». Giulio Cesare nacque intorno agli anni 100 a.C. da famiglia patrizia (gens Julia) discendente, da parte di padre, direttamente da Venere. Origine quindi divina.
In quel periodo Roma, oltre alla penisola italiana, dominava in pratica tutto il bacino del Mediterraneo.
Infatti ad ovest ed al nord aveva conquistato la penisola Iberica (Spagna e Portogallo) e le Gallie (Francia - Lussemburgo - Belgio e Olanda). Ad est domina va tutta la costa dalmata, la Grecia e l'Asia minore. A sud aveva sotto di sé la fascia costiera dell'Africa settentrionale compresa fra la Tunisia ed il Libano, fatta eccezione di una zona corrispondente presso a poco all'odierno Egitto.
Roma in tal modo poteva controllare tutto il traffico che si svolgeva nel Mediterraneo.
Fin da giovane Cesare, per la sua illustre e divina ascendenza pose la candidatura alle cariche pubbliche incontrando però le prime difficoltà, i primi scontri, le prime disillusioni che lo portarono a collezionare nemici su nemici.
Cesare però si sapeva abilmente destreggiare fra patrizi e plebei non disdegnando di schierarsi apertamente a favore di quest'ultimi, quando, per scopi politici, lo riteneva opportuno. Questa grande abilità lo portò subito a ricoprire la carica di pontefice; carica non di rilievo ma di prestigio in quanto sovrintendeva a tutte le manifestazioni religiose curava li calendario, fissava giorni festivi, consacrava i templi, presiedeva ai sacrifici, compilava l'elenco dei magistrati in carica ogni anno e curava la cronaca degli avvenimenti.
Dopo un soggiorno in Oriente, ove ebbe modo di distinguersi in diverse avventure militari, guadagnandosi la più alta onorificenza (corona di foglie di quercia), Giulio Cesare ritorna a Roma ove nel 69 A.C. a soli 32 anni venne eletto questore. Questa nomina in pratica gli apriva le porte del Senato. Tre anni dopo, a 35 anni, venne eletto «Edile curule» cioè sovrintendente all'urbanistica ed alle cerimonie pubbliche. Con tale carica Cesare seppe accattivarsi le simpatie. del popolo organizzando fastosi giochi pubblici che rimasero memorabili. Questa accorta politica gli valse successivamente la elezione. a Console con una legge speciale approvata direttamente a popolo al di fuori del Senato.
E' proprio in questo periodo che lo stesso Senato gli conferì l'ufficio pubblico di «Sovrintendente ai boschi ed ai sentieri».
Ma vediamo quali erano le attribuzioni di quest'ufficio che certamente rivestiva notevole importanza avendovi destinato un Console!
Ai tempi della Roma imperiale l'estensione dei boschi era ben più vasta di quella attuale. Le foreste rivestivano la maggior parte del rilievi spingendosi fino a valle ove talora raggiungevano le coste.
L'importanza dei boschi era ben nota agli antichi romani tanto che per molti di essi, che esplicavano particolari compiti, era stato imposto un vincolo severissimo: quello religioso. Infatti erano dichiarati sacri quei boschi che proteggevano sorgenti d'acqua, quelli che segnavano i confini fra Stati, città e proprietà e quelli che correvano lungo le vie consolari.
Coloro che arrecavano danni ai boschi dichiarati sacri, commettevano atto sacrilego e quindi erano puniti molto severamente. Dalla pena pecuniaria si arrivava a quelle corporali e per i reati più gravi era prevista perfino la pena di morte.
Ciò sta a significare l'importanza che a quei tempi si dava ai boschi. Non è dato sapere se questa importanza era basata su approfondite conoscenze di problemi idrogeologici. E' da ritenere però che quest'ultimi problemi non sussistessero data la grande estensione delle foreste, in rapporto alla popolazione, che di per sé assicuravano la stabilità dei versanti e delle terre.
L’importanza dei boschi era quindi di natura economica ma soprattutto di natura militare.
Dai boschi infatti proveniva tutto il materiale necessario all'armamento delle flotte e Roma di flotte ne aveva estremo bisogno poichè su di esse erano basati il predominio marittimo ed i traffici commerciali in dispensabili alla opulenta e doviziosa vita romana di allora.
La distruzione di un bosco, pertanto, poteva rappresentare un duro colpo per la perfetta ed efficiente macchina di guerra sulla quale si basava tutta la potenza di Roma imperiale. Da ciò la necessità per il Senato di affidare la responsabilità della vigilanza forestale a persona altamente qualificata, che aveva da to prova, in precedenti incarichi pubblici, di notevole capacità organizzativa. E Cesare assolse egregiamente, come ,del resto era nel suo carattere, questi compiti per lui nuovi e tanto diversi da quella che era la sua vera innata vocazione di condottiero. Lo troviamo infatti, poco dopo, in Gallia come Governatore della Gallia Cisalpina, dell’Illiria e del Narbonese. In quelle zone il futuro dittatore sarebbe rimasto per ben nove anni.
lndubbiamente Cesare non ha lasciato, nella carica di sovrintendente ai boschi ed ai sentieri, l'impronta del suo genio come l'ha lasciata nell'arte militare, nelle lettere e nella politica anche per la breve durata dell'ufficio pubblico. Ma il solo fatto di aver ricoperto, seppur per breve tempo, tale incarico, dà a noi forestali di oggi un senso di legittimo orgoglio e di maggiore senso di responsabilità sapendo di aver avuto come collega un così illustre personaggio.
GUIDO BERNARDI |