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Paolo Di Tarso

Illustre «cittadino romano» Paolo di Tarso, nacque a Tarso in Cilicia (Asia Minore meridionale), ma fu allevato, secondo la legge dei padri (Atti 22, 3), a Gerusalemme alla scuola di Gamaliele, celebre maestro di teologia rabbinica.

Si chiamò Saulo come Israelita e Paolo come cittadino romano. Usci dalla scuola con il pensiero avviato al disprezzo ed all'odio acerrimo verso i seguaci di Gesù, tanto che, nell'anno 36 (tre anni dopo la resurrezione di Cristo), fu tra i principali ispiratori del martirio di Stefano (forse suo compagno di studi), che divenne poi S. Stefano. La morte di S. Stefano, eseguita con la lapidazione, non fu decretata attraverso regolare processo - per il quale sarebbe stata necessaria la ratifica del governatore - ma per effetto di sollevazione popolare: poichè, secondo l'antico rito, gli accusatori diretti dovevano per primi iniziare a scagliare le pietre essi, deposti i barracani onde tener libere le braccia, diedero incarico a Saulo (Paolo) di custodire le vesti.

Divenuto Saulo ormai famoso persecutore dei Cristiani, ebbe incarico di raggiungere la città di Damasco, sede di un'importante comunità cristiana, per catturare e ricondurre fra stenti e catene al giudizio dei sacerdoti giudei i fedeli di quella comunità. Saulo quindi partì, ma su quel cammino avvenne il fatto più straordinario che ad un uomo possa accadere. Mentre con altri compagni avanzava - forse - cavalcando sulla via di Damasco, gli balenò dinanzi improvvisa e più potente del sole una luce celeste ed udì una voce imperiosa gridare: «Saulo, Saulo perchè mi perseguiti?». A fronte della divina e violenta manifestazione Saulo ed i compagni caddero da cavallo, sbigottiti e sgomenti. Saulo, abbagliato dalla luce, restò cieco. Cristo, al quale Paolo non voleva credere e che continuava a perseguitare, ormai l'aveva vinto! Quella voce, infatti, gli aveva imposto di entrare in Damasco ove avrebbe saputo che cosa dovesse fare. Raggiunta la città seppe così da Anania, fervente cristiano, della missione che avrebbe dovuto compiere. Riacquistata la vista e battezzato dallo stesso Anania cominciò a camminare su tutte le strade del mondo, allora conosciute, per spiegare a tutte le genti la parola (il S.Vangelo) del Divino Maestro, di cui fu ed è, ancor oggi, il più grande interprete.

Intraprese tre viaggi missionari attraverso l'Asia Minore meridionale e la Grecia fino a Tessalonica; si recò a Gerusalemme dove fu arrestato per l'istigazione dei giudeizzanti e tradotto a Roma per avere egli, come cittadino romano, appellato all'imperatore.

La Giudea, la Macedonia, Efeso, Cipro, Malta intesero la sua predicazione illuminata.
Sulla via ostiense subì nel 66 il martirio per decapitazione. Ma, caduto il capo, la sua parola restò più vivida di un messaggio attraverso le opere; gli Atti e le famose Lettere, in numero di quattordici: due ai Tessalonicesi, due ai Corinzi, una ai Galatz, una ai Romani, una a Filemone, una ai Filippesi, una ai Colossesi, una agli Efesini, due a Timoteo, una a Tito, una agli Ebrei.
Tanto fu avvincente la forza della sua dottrina, e sul piano teologico e su quello della fede, che anche lo stesso Seneca, famoso filosofo, ne subì l'influenza. In Seneca, infatti, quantunque pagano, ritroviamo un'eco di amore che si esprime sulla fraternità e sull’uguaglianza de.gli uomini, veramente sorprendente per quell'epoca.
Le recenti celebrazioni del bimillennario di S. Paolo hanno ampiamente rievocato come l'essenza della sua dottrina sia un prodigio di viva attualità oggi come venti secoli fa: quasi un miracolo di eterna illuminazione che solo un apostolo della sua grandezza potevo; effettuare a beneficio del genere umano nella luce eterna di Cristo Redentore.

***

L'afflato di umano calore, sincero e generoso che spesso precede nella storia degli uomini lo slancio decisivo delle buone azioni, oltre ad avere origini molto antiche ha un crisma universale tanto da costituire il principio ispiratore di ogni giusto conseguimento. Conseguimento che, allorquando si raggiunge, ha un altissimo significato morale e civile fra gli esseri pensanti offrendo ad essi il senso avvincente di una grande conquista: la bontà. E' noto, infatti, come adempiendo alle buone azioni appaia più facilmente l'immagine del bene e come da quest'ultimo ci si possa avvicinare alla lenta, graduale conquista della bontà in senso sempre crescente. Nè l'analisi vigile e costante delle azioni, nè la retorica come esaltazione vibrante ed a volte troppo compiacente delle azioni stesse possono bastare ad avvicinarsi ad una cosi alta mèta. Solo il cuore in uno slancio spontaneo verso l'infinito può essere la valvola di accensione adatta a dar vita al meraviglioso fuoco della bontà, al molto ascensionale delle cose elette: un moto che alimenterà nel contempo il fuoco in tutte le direzioni avvampando su quel rogo ideale dove l'uomo sarà benefico elemento di trasmissione della fiamma; e cosi quel calore costituirà una invisibile catena di bene dal nostro momento fino all'eternità. In questa catena dove il cuore è primo, noi amiamo di vedere anche se nei termini di una attualità un po' raffigurata, l'«impresa» umana e divina di Paolo di Tarso, Apostolo di tutte le genti.

Un Uomo che dalla polvere seppe risorgere, esordire in terra nei secoli ed affermarsi sulla scala dei divini voleri. Diciamo impresa e non opera perchè mentre la prima nella sua vulcanica realtà fu soffertissima conquista; la seconda fu ed è, ancor oggi dopo diciannove secoli, un avvenimento, una apoteosi palpitante sorretta da una nuova efficace e continua ispirazione: nella vita tutta in senso universale e nelle Missioni in particolare che dall'Apostolo presero il carattere ed il nome. Universale nel suo vero significato perchè da S. Paolo e con S. Paolo il Vangelo diviene per gli uomini pensiero e sintesi di pensiero, fatto vivo dell'umano sentire, il cui valore resterà nei secoli, sospinto dalla potenza rivelatrice dell'interpretazione: sincera, profonda, la più grande.

Ma come nacque in quell'Uomo avviato al triste credo della violenza ed allo spettacolo allucinante del delitto il principio dell'amore nella superiore divina visione della fraternità sempre vivente di Cristo?

Come avrà fatto mai quel cuore che non esitò a darsi alle persecuzioni, a mutare cosi decisamente da divenire fucina d'amore e fonte perenne di bontà? Di una bontà che condusse a dire «Cor Pauli, cor Christi?» in un parallelo di valori Che non troverà raffronti?

A cosi forti interrogativi, pur rispondendo con Victor Hugo, che «S. Paolo rappresenta il prodigio divino e umano della conversione; colui al quale è comparso il futuro da cui restò folgorato...» ci sembra che, per quanto autorevole, l'affermazione sia troppo genericamente circoscritta al prodigio; non già perchè il prodigio di una conversione consenta una spiegazione umana, ma perchè il prodigio Paolo di Tarso induce fortemente a pensare all'Uomo nel quale si effettuò. Qualcosa infatti precede e sovrasta la conversione stessa come fatto oggettivo. Un ciclo difficilissimo a ricostruirsi e che tuttavia dobbiamo considerare per ritrovarvi l'essenza dell'insegnamento e cioè il carattere dell'uomo prima di «Damasco» e quello dopo «Damasco». Prima, seguendo l'idea di colui che vuole con furore, seppur inconscio, perseguitare la Luce, attraverso manifestazioni di una ostilità travolgente e tenace; dopo, valutando l'uomo che, colpito da quella stessa luce torna ad «aggredirla» trasformando l'impulso della sua antecedente violenza nella più grande e sincera missione d'amore che l'umanità potrà mai più conoscere. Missione che è e si trasfonderà nella stessa storia degli uomini, ancor oggi spiritualmente in cammino sulla via di Damasco. E Damasco, su un piano più lato spiegherà anche il soffio animatore di ogni grande avvenimento laddove si farà sempre storia degna degli uomini. La storia di Paolo di Tarso sarà per questa ispirazione nei secoli fatto vivo dell'umanità, dalla più illustre alla più modesta. Infatti, leggendo e pur rileggendo gli At- ti e le Lettere dell'Apostolo, oltre ad incontrare un'attualità perenne il cui metro si raffigura in un crescendo di immagini e di propositi esplicativi e illuminanti del Cristianesimo, ritroviamo una sintesi di valori proiettata verso un orizzonte infinito da uno slancio incessante di eccezionale forza; forza d'uomo, di missionario, di filosofo, di poeta, di apostolo e di Santo. Una forza che dal Vangelo si muove come da una fonte inesauribile di energia portando il Regno luminoso di se stessa nell'opera del suo più grande interprete. Possiamo quindi affermare con Victor Hugo: «Egli - l'Apostolo - è uno spirito che giganteggia per l'irrompere della Luce; è la fulgida bellezza di un'anima a cui la verità ha fatto violenza. Ecco in che consiste la via di Damasco».

Una violenza che solamente poteva cogliere l'anima di Paolo nella sua ansia d'amore e che pur possiamo comprendere pensando che, anche noi uomini nella ricerca di una rarità estirpiamo un fiore e per farlo nostro e perchè da esso scaturiscano migliaia e migliaia di esemplari. Esemplari che siano il rinnovamento della rarità e dai quali ricreare bellezza ed armonia espressioni d'amore e moti di esso verso il divino.

Per questo glorificante motivo sulla via di Damasco il «divino» tornò ad umanizzarsi per prendere il suo fiore, per toglierlo dal peccato e far si che divenisse elemento di Luce: una perla incastonata in un tesoro immenso che non possiamo vedere, il cui splendore però si rispecchia quotidianamente negli uomini di buona volontà. Paolo di Tarso quindi, si rinnovò in Cristo sia come Luce per il «divino» sia attraverso il ricordo dolente e tormentoso della sanguinosa persecuzione che Egli aveva operato contro i cristiani. Persecuzione che aveva dato luogo al vertiginoso tumulto della sua primaria esistenza trascorsa nell'errore e nell'ignoranza ed all'insorgere nella memoria del sangue che aveva fatto versare.

E dall'errore che era divenuto «orrore» risorgerà nella mente di Paolo la morte di Stefano, S. Stefano, avvenuta per effetto di sollevazione popolare e della quale Paolo era stato il principale ispiratore.

Ma il sangue del Martire diventerà lava incandescente nell'anima di Paolo! Una lava che traboccherà e dilagherà non più per uccidere e distruggere, ma per modellare ed edificare, sotto l'azione benefica della Luce. Lava e Luce, cioè tormento del ricordo e slancio d'amore, tra pensieri che come lapilli volteggiano nella coscienza come in un cielo infuocato dove, mentre risorge il pentimento, scaturisce nuovo e triplicato il desiderio di bene: un dilaniarsi profondo e continuo dell'anima nell'ansia incantevole ed avvolgente per continue e sublimi conquiste. Ma prima di S. Stefano altri furono i suoi perseguitati; quante grida di giusti soffocate della morte! Grida che Egli tenne nel cuore quale perenne eco di un'umanità in sofferenza; simili a nubi fonde su di un cielo senza stelle, a notti sanguinose nella violenza che tur-ba ed agghiaccia. Le sue, le nostre visioni di quel del nostro mondo: tante, tante avvolgenti tenebre che stringono fino a soffocare con l'angoscia di un rimorso che non affiora perchè coperto dall'inconscio: il tutto simile all'incudine di Vulcano, un insieme di mito e di peso enormemente reale ed affondante.

Egli, Paolo di Tarso, seppe di queste cose e pianse sul gigantesco bagaglio di una cosi triste esperienza. Un'esperienza di smarrimenti che non l'abbandonarono mai perchè «vinta l'ignoranza del male» si rimossero nell'agitarsi di quei fervori illuminanti della verità, dai quali nacque l'Apostolo: un Apostolo per tutte le genti ad imitazione di Cristo. «Siate imitatori di me, come io sono imitatore di Cristo». (1 Cor., 2,1).

E ad imitazione di Cristo camminò su tutte le strade del mondo perchè gli uomini potessero profondamente sentire e comprendere le parole del Divino Maestro spiegate dal suo intelletto «folgorata dalla Luce» che diciannove secoli fa, oggi e sempre dà in un miracolo edificante di continuità, universali sviluppi al Vangelo di Cristo. A quel Vangelo di cui l'Apostolo ribadiva costantemente i caratteri nelle sue «Lettere» famose, in numero di quattordici, dove la predicazione diviene consiglio e preghiera, unita all'invito costante di operare in un fervore altissimo. Fervore a volte aggressivo, ma suadente, animato dall'ansia di un padre che tutto vede, immagina ed intuisce sicuro di sospingere al bene perchè ispirato dall'amore. Da un amore grande come il mare, dove l'impulso che lo muove si increspa come l'onda, sovrasta, purifica e risospinge al sole. Paolo perdona per bontà nella sua costante imitazione di Cristo e per saggezza profonda, pacata e nel contempo solennemente sincera come Seneca nel quale molti studiosi vedono un'influenza dell'Apostolo pur senza elementi definitivi sugli eventuali rapporti che il Santo ed il filosofo Cordovano abbiano potuto avere. Tuttavia che quest'ultimo, anche senza incontri diretti, abbia conosciuto gli scritti o almeno la dottrina di S. Paolo, stante la comune convivenza in Roma dall'anno 61 all'anno 65 dell'era volgare, è opinione molto diffusa e recentemente affermata da autorevoli personalità della S. Chiesa (1). Non a caso appare quindi in Seneca l'affermazione sulla fraternità di tutti gli uomini e sulla loro uguaglianza per diritto naturale.

Le stesse «Lettere a Lucillo» contengono richiami di cosi profonda umanità e calore che sorprendono per uno scrittore pagano. Eco della dottrina dell'Apostolo? E' molto probabile. S. Paolo parlava abitualmente l'aramaico; ma prese ad usare di preferenza la lingua greca, quando le vicende e le ispirazioni divine lo lanciarono alla conquista dei pagani per i quali in tutto l'Impero Romano la lingua greca serviva per i rapporti commerciali e culturali. Le quattordici lettere, nella raccolta canonica del Nuovo Testamento, hanno un ordine cronologico. E' preferibile tuttavia presentarle nell'ordine logico: Lettera agli Ebrei convertiti al Cristianesimo; ai Cristiani della Galazia; ai Cristiani di Roma; ai Cristiani di Corinto; Seconda lettera ai Cristiani di Corinto; Prima lettera ai Cristiani di Salonicco; Seconda lettera ai Cristiani di Salonicco; Lettera ai Cristiani di Filippi; ai Cnstiani di Efeso; ai Cristiani di Colossi; a Tito; a Timoteo; a Filemone; Seconda lettera a Timoteo.

Studiare le «Lettere», queste Lettere, è come aprire gli occhi sull'universo per la grandezza infinita del contenuto. Stile personalissimo di un'anima fatta per dominare, ardente e fiera dove l’uomo Paolo appare m tutta la sua chiarezza. Un bene che si innalza e si magnifica in una altitudine teologica dove lo studioso, il pensatore o chiunque altro, sentono di poter appena arrivare a comprendere. E' tutta un’immensità che cavalcando i secoli ci reca un alito sempre vivo ed attuale come nella Lettera ai Galati dove il doloroso stupore dell'Apostolo pare cosa dei nostri giorni: «Vengo a sapere con mio grande stupore che voi cosi frettolosamente siete passati da quel Vangelo che vi ha chiamati nella grazia che viene da Gesù Cristo, a un Vangelo diverso. No! Non esiste un Vangelo diverso da quello che vi ho predicato io; ma soltanto esistono, certuni che vi turbano e che vorrebbero sovvertire il Vangelo di Cristo, Se anche noi stessi o un angelo del Cielo venisse ad annunziarvi un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato noi costui sia scomunicato!».

E nella lettera ai Romani: «La notte è avanzata e il giorno si avvicina. Lungi da noi quindi le azioni che amano le tenebre; rivestiamoci con le armi della Luce». In quella prima lettera ai Corinti richiama poi tutti all'unità: «Fratelli, io vi scongiuro in nome di Gesù Cristo, Signore Nostro, affinchè tutti abbiate un medesimo sentimento e affinchè non ci siano tra voi divisioni, ma siate uniti con lo stesso pensare e nello stesso sentire; o fratelli, mi è stato riferito che tra di voi vi sono partiti. Ma io dico: Cristo è dunque tagliato a pezzi?».

E dopo quasi venti secoli quale commento potremmo osare se non offrendo il pentimento della miseria che ci attanaglia e perseguendo la speranza della redenzione nella luce stessa che da S. Paolo ci viene? Una luce che si manifesta nel suo famoso inno alla carità, alla carità paziente e benigna, alla carità che non si adira, alla carità che non finisce mai. E sia la carità come nella lettera ai Cristiani di Filippi, il punto di incontro di tutte le buone idealità proposte come un dovere al vero cristiano. Ma se il costante rinnovamento di queste idealità e la loro difesa sarà, come effettivamente è, troppo difficile per noi, ripensiamo ai profondi versi di quella poesia di Boris Pasternak che va sotto il titolo di «La stella di Natale»; e forse ci sentiremo più forti:

La notte di gelo somigliava a una fiaba,

e, dalla nevosa catena dei monti nella tormenta, qualcuno per tutto il tempo scese invisibile fra loro.

Per quella stessa strada, per quegli stessi luoghi alcuni angeli andavano in mezzo alla folla. L'incorporeità li faceva invisibili, ma il passo lasciava l'orma.

E su quell'orma ricalchiamo noi seguendo la stella come gli antichi Magi affinchè per tutti «la via di Damasco», pur lunga e difficile, sia uno splendore copioso e costante di luci, di celesti affermazioni, sempre nuove e vivide come i messaggi dell'Apostolo delle genti.
Pier Antonio CORSI

(1) L'Osservatore Romano del 20-10-1961. Seneca conobbe S. Paolo e la sua dottrina? Articolo del Cardinal Antonio Bacci.

Vale la pena di vederlo più da vicino questo «grande della storia». Giulio Cesare nacque intorno agli anni 100 a.C. da famiglia patrizia (gens Julia) discendente, da parte di padre, direttamente da Venere. Origine quindi divina.

In quel periodo Roma, oltre alla penisola italiana, dominava in pratica tutto il bacino del Mediterraneo.

Infatti ad ovest ed al nord aveva conquistato la penisola Iberica (Spagna e Portogallo) e le Gallie (Francia - Lussemburgo - Belgio e Olanda). Ad est domina va tutta la costa dalmata, la Grecia e l'Asia minore. A sud aveva sotto di sé la fascia costiera dell'Africa settentrionale compresa fra la Tunisia ed il Libano, fatta eccezione di una zona corrispondente presso a poco all'odierno Egitto.

Roma in tal modo poteva controllare tutto il traffico che si svolgeva nel Mediterraneo.

Fin da giovane Cesare, per la sua illustre e divina ascendenza pose la candidatura alle cariche pubbliche incontrando però le prime difficoltà, i primi scontri, le prime disillusioni che lo portarono a collezionare nemici su nemici.

Cesare però si sapeva abilmente destreggiare fra patrizi e plebei non disdegnando di schierarsi apertamente a favore di quest'ultimi, quando, per scopi politici, lo riteneva opportuno. Questa grande abilità lo portò subito a ricoprire la carica di pontefice; carica non di rilievo ma di prestigio in quanto sovrintendeva a tutte le manifestazioni religiose curava li calendario, fissava giorni festivi, consacrava i templi, presiedeva ai sacrifici, compilava l'elenco dei magistrati in carica ogni anno e curava la cronaca degli avvenimenti.

Dopo un soggiorno in Oriente, ove ebbe modo di distinguersi in diverse avventure militari, guadagnandosi la più alta onorificenza (corona di foglie di quercia), Giulio Cesare ritorna a Roma ove nel 69 A.C. a soli 32 anni venne eletto questore. Questa nomina in pratica gli apriva le porte del Senato. Tre anni dopo, a 35 anni, venne eletto «Edile curule» cioè sovrintendente all'urbanistica ed alle cerimonie pubbliche. Con tale carica Cesare seppe accattivarsi le simpatie. del popolo organizzando fastosi giochi pubblici che rimasero memorabili. Questa accorta politica gli valse successivamente la elezione. a Console con una legge speciale approvata direttamente a popolo al di fuori del Senato.

E' proprio in questo periodo che lo stesso Senato gli conferì l'ufficio pubblico di «Sovrintendente ai boschi ed ai sentieri».

Ma vediamo quali erano le attribuzioni di quest'ufficio che certamente rivestiva notevole importanza avendovi destinato un Console!

Ai tempi della Roma imperiale l'estensione dei boschi era ben più vasta di quella attuale. Le foreste rivestivano la maggior parte del rilievi spingendosi fino a valle ove talora raggiungevano le coste.

L'importanza dei boschi era ben nota agli antichi romani tanto che per molti di essi, che esplicavano particolari compiti, era stato imposto un vincolo severissimo: quello religioso. Infatti erano dichiarati sacri quei boschi che proteggevano sorgenti d'acqua, quelli che segnavano i confini fra Stati, città e proprietà e quelli che correvano lungo le vie consolari.

Coloro che arrecavano danni ai boschi dichiarati sacri, commettevano atto sacrilego e quindi erano puniti molto severamente. Dalla pena pecuniaria si arrivava a quelle corporali e per i reati più gravi era prevista perfino la pena di morte.

Ciò sta a significare l'importanza che a quei tempi si dava ai boschi. Non è dato sapere se questa importanza era basata su approfondite conoscenze di problemi idrogeologici. E' da ritenere però che quest'ultimi problemi non sussistessero data la grande estensione delle foreste, in rapporto alla popolazione, che di per sé assicuravano la stabilità dei versanti e delle terre.

L’importanza dei boschi era quindi di natura economica ma soprattutto di natura militare.

Dai boschi infatti proveniva tutto il materiale necessario all'armamento delle flotte e Roma di flotte ne aveva estremo bisogno poichè su di esse erano basati il predominio marittimo ed i traffici commerciali in dispensabili alla opulenta e doviziosa vita romana di allora.

La distruzione di un bosco, pertanto, poteva rappresentare un duro colpo per la perfetta ed efficiente macchina di guerra sulla quale si basava tutta la potenza di Roma imperiale. Da ciò la necessità per il Senato di affidare la responsabilità della vigilanza forestale a persona altamente qualificata, che aveva da to prova, in precedenti incarichi pubblici, di notevole capacità organizzativa. E Cesare assolse egregiamente, come ,del resto era nel suo carattere, questi compiti per lui nuovi e tanto diversi da quella che era la sua vera innata vocazione di condottiero. Lo troviamo infatti, poco dopo, in Gallia come Governatore della Gallia Cisalpina, dell’Illiria e del Narbonese. In quelle zone il futuro dittatore sarebbe rimasto per ben nove anni.

lndubbiamente Cesare non ha lasciato, nella carica di sovrintendente ai boschi ed ai sentieri, l'impronta del suo genio come l'ha lasciata nell'arte militare, nelle lettere e nella politica anche per la breve durata dell'ufficio pubblico. Ma il solo fatto di aver ricoperto, seppur per breve tempo, tale incarico, dà a noi forestali di oggi un senso di legittimo orgoglio e di maggiore senso di responsabilità sapendo di aver avuto come collega un così illustre personaggio.

GUIDO BERNARDI